La Corte di Cassazione (con sentenza n. 3197 del 2017, estensore Dott. Ferro) torna sulla applicabilità dello statuto dell’imprenditore commerciale alle società di capitali partecipate da enti locali ed affidatarie di servizi secondo il modello dell’in house providing.
In particolare, la Corte d’Appello di Milano aveva rigettato il reclamo ex art. 18 L.F. avverso la sentenza dichiarativa di fallimento della società Mozzate Patrimonio S.r.l. emessa dal Tribunale di Como; i motivi di ricorso per cassazione attenevano quindi alla pretesa insussistenza dei requisiti di fallibilità, in quanto il soggetto doveva ritenersi organismo di diritto pubblico ovvero società in house.
Rigettando i motivi di ricorso, la Corte approfondisce il tema della soggezione delle società a partecipazione pubblica alle disposizioni sul fallimento e sul concordato preventivo, chiarendo che “il profilo pubblicistico della società in house, in cui l’ente pubblico esercita sulla società un controllo analogo, quantomeno per prerogative ed intensità, a quello esercitato sui propri servizi ed uffici, appare allora ispirato – in realtà – dal mero obiettivo di eccettuare l’affidamento diretto (della gestione di attività e servizi pubblici a società partecipate) alle citate norme concorrenziali, ma senza che possa dirsi nato, ad ogni effetto e verso i terzi, un soggetto sovraqualificato rispetto al tipo societario eventualmente assunto“.
Per cui, ai fini dell’applicazione dello statuto dell’imprenditore commerciale, rileva essenzialmente la natura del soggetto e non il tipo di attività esercitata, caratterizzata o meno da uno scopo lucrativo oppure dal perseguimento di interessi pubblici; nel caso di specie trattavasi della gestione e manutenzione del patrimonio immobiliare del Comune.
Il tema della compatibilità dello scopo lucrativo con la realizzazione di un interesse pubblico (secondo norme e vincoli resi più stringenti dal d.lgs. n.175 del 2016) rileva solo nella fase “amministrativa” di decisione sulla partecipazione, costituzione e nomina degli organi sociali, e non può influire sul modo in cui la società successivamente opererà nel mercato.
Ritiene la Corte che “una volta adottato, anche da parte dell’ente pubblico, il blocco-sintagma societario, nella fattispecie della società a responsabilità limitata, la scelta di consentire l’esercizio di determinate attività a società di capitali (e dunque di perseguire l’interesse pubblico attraverso lo strumento privatistico) comporta per un verso che queste assumano i rischi connessi alla loro insolvenza“.