RISTRUTTURAZIONI DEL DEBITO – La continuità aziendale esterna o indiretta

Il Tribunale di Roma, dovendo pronunciarsi sull’ammissione di una impresa alla procedura di concordato preventivo a seguito del deposito del piano e della proposta ex art. 161, 2° e 3° c. L.F., affronta il tema dell’applicabilità dell’istituto di cui all’art. 186-bis L.F. in ipotesi di affitto di azienda o di ramo d’azienda da parte della società che ha adìto la procedura.

Nel caso in cui la proposta di concordato provenga da una società che abbia concesso in affitto a terzi la propria azienda (o un suo specifico ramo produttivo) il Tribunale riscontra l’elemento qualificante della presenza di un’azienda in esercizio ed applica di conseguenza la disciplina speciale dettata dall’art. 186-bis per il concordato con continuità aziendale.

Si legge infatti che “la qualificazione prospettata dalla società ricorrente circa la riconducibilità all’ipotesi disciplinata dall’art. 186-bis l. fall. del caso, ricorrente nella specie, di prosecuzione dell’attività aziendale a mezzo di terzo soggetto affittuario del relativo plesso – e, in conseguenza, dell’applicabilità della connessa disciplina speciale, in parte divergente da quella dettata per la fattispecie del concordato c.d. liquidatorio – appare corretta e condivisibile, se si tiene conto che l’affitto costituisce una modalità attraverso la quale l’azienda viene mantenuta in vita e, pertanto, anche nel caso in cui la proposta di concordato provenga da una società che abbia concesso in affitto a terzi la propria azienda o uno specifico ramo produttivo deve riscontrarsi l’elemento qualificante della presenza di un’azienda in esercizio” (Trib. Roma, decreto 19/05/2017).

Recentemente anche il Tribunale di Trento ha affrontato il tema, soffermandosi sul favor legislativo nei confronti del concordato con continuità aziendale, a fronte di un certo disincentivo per quello liquidatorio; sul punto si è ritenuto che un simile atteggiamento “non si presta ad essere spiegato in forza di caratteristiche intrinseche del concordato in continuità, ed anzi, al contrario, esso presenta notoriamente un grado di aleatorietà ed un rischio maggiore del concordato liquidatorio, per il carattere tipicamente prognostico delle valutazioni poste a fondamento dell’elaborazione di un business plan, ed il pericolo che le risorse a disposizione dei creditori concorsuali siano erose dalle obbligazioni contratte nell’esercizio dell’impresa: la ragione giustificatrice può dunque rinvenirsene soltanto nell’intento di preservare la continuità aziendale, di conservare il valore azienda in quanto tale, cosa che porta a ricomprendere nell’ambito di applicazione dell’art. 186 bis, e sottrarre così all’obbligo di rispetto della soglia del 20%, anche le ipotesi di continuità indiretta” (Trib. Trento, decreto 06/07/2017).

Per cui la conservazione dei valori aziendali (know-how, avviamento, personale) diventa obiettivo ed interesse delle procedure, anche con possibile ulteriore sacrificio del ceto creditorio a cui in caso di continuità non occorrerebbe assicurare il 20% (in forza della deroga alla soglia minima, ex art. 160, 4° c. L.F.); tale prospettiva viene tuttavia riequilibrata dal Tribunale, secondo cui non vi sarebbe “alcuna ragione atta a giustificare la sottoposizione del concordato con continuità ad un diverso regime, atteso che la prosecuzione dell’attività di impresa è favorita non in quanto tale, ma in quanto funzionale al “miglior soddisfacimento dei creditori”, e la regola della ragionevole certezza di attuazione del piano concordatario è anch’essa regola di tutela del ceto creditorio“.

Il tema torna quindi ad essere l’elemento di raffronto della proposta in continuità, che il professionista ai sensi dell’art. 186-bis, 2° c. lett. b) deve attestare come “funzionale al miglior soddisfacimento dei creditori“; la maggior convenienza dovrà misurarsi sulle alternative liquidatorie concretamente percorribili o su un ipotetico concordato con soglia minima di pagamento del 20% fissata ex lege?

Anche la Corte d’Appello di Firenze si è espressa sul punto, chiarendo che la sussistenza dell’affitto d’azienda non fa presumere di per sé la continuità che giustifica l’applicazione dell’art. 186-bis; in particolare ha ritenuto “un concordato preventivo non possa qualificarsi come proposto ai sensi dell’art. 186 bis LF (che lo definisce come quello in cui ‘il piano di concordato .. prevede la prosecuzione dell’attività di impresa da parte del debitore, la cessione dell’azienda in esercizio ovvero il conferimento dell’azienda in esercizio in una o più società, anche di nuova costituzione’) per il fatto che sia in corso un contratto di affitto di azienda: invero, il concordato con continuità aziendale deve, invece, ravvisarsi solo se esso preveda la prosecuzione dell’attività di impresa e quindi l’assunzione del relativo rischio (ricadente, in definitiva, sui creditori); esso deve ritenersi qualificato dalla modalità di adempimento dell’obbligazione di pagamento che presuppone la prosecuzione dell’attività di impresa in capo al debitore” (Corte d’Appello Firenze, sez. I, 05/04/2017, n. 760).