La Suprema Corte si è recentemente soffermata in tema di revocatoria fallimentare ed atti – quali in particolare mutuo ipotecario – stipulati, antecedentemente alla declaratoria di fallimento, al fine di ottenere una maggior soddisfazione delle ragioni creditorie del contraente in sede di distribuzione dell’attivo patrimoniale della procedura.
Evidente che tali negozi si pongano in chiaro conflitto con il principio della par condicio creditorum, ledendo le aspettative di recupero del ceto dei creditori chirografari.
Con la Sentenza n. 19196 del 28 settembre 2016, la Suprema Corte ha affermato che sussistono i presupposti per l’esercizio dell’azione revocatoria ordinaria quando una banca, consapevole dello stato di dissesto in cui si trova una società – desumibile dalla grave esposizione debitoria, dai protesti e dalla segnalazione alla centrale rischi della Banca d’Italia – stipuli un contratto di mutuo garantito da ipoteca col fine di assicurarsi la piena possibilità di soddisfare i propri crediti tramite l’esclusione degli altri creditori dal concorso sul ricavato della vendita dell’immobile su cui è stata iscritta ipoteca. In tal caso sussistono, infatti, tutti gli elementi costitutivi dell’azione revocatoria poiché non può mettersi in discussione né la scientia decoctionis, né il consilium fraudis da parte della banca, né il danno cagionato agli altri creditori.
La Corte ha tuttavia precisato che, in tali casi, l’azione propria per garantire le ragioni del certo credito è la revocatoria fallimentare, e non invece la declaratoria di nullità del contratto per illiceità dei motivi comuni ai contraenti, concordi nel procurare pregiudizio a terzi.
Infatti “il motivo illecito che, se comune e determinante, determina la nullità del contratto, si identifica con una finalità vietata dall’ordinamento perché contraria a norma imperativa, ai principi dell’ordine pubblico o del buon costume, ovvero poiché diretta ad eludere, mediante detta stipulazione, una norma imperativa. Pertanto, l’intento delle parti di recare pregiudizio ad altri – quale quello di attuare una frode ai creditori, di vanificare un’aspettativa giuridica tutelata o di impedire l’esercizio di un diritto – non è illecito, ove non sia riconducibile ad una di tali fattispecie, non rinvenendosi nell’ordinamento una norma che sancisca in via generale (come per il contratto in frode alla legge) l’invalidità del contratto in frode dei terzi, per il quale, invece, l’ordinamento accorda rimedi specifici, correlati alle varie ipotesi di pregiudizio che essi possano risentire dall’altrui attività negoziale”.