Secondo una parte della Giurisprudenza di merito, sia la mancata ammissione alla procedura di concordato preventivo che il sostanziale insuccesso della stessa (per la conseguente dichiarazione di fallimento) determinavano la mancanza di funzionalità, ovvero di utilità per i creditori, della prestazione professionale; in tal modo veniva negata la prededuzione ai compensi maturati per la redazione della proposta.
Si era ritenuto infatti che “il fondamento della regola posta dall’art. 111 l.f. si rinviene nel rapporto di strumentalità dell’attività professionale svolta rispetto alla procedura, utile al ceto creditorio, secondo la valutazione ex post del giudice delegato, in considerazione dei vantaggi arrecati in termini di accrescimento dell’attivo o di salvaguardia dell’integrità del patrimonio” (Cass. 8958/2014; Cass. 5705/2013, 3402/2012, 8958/2014)” (Tribunale di Treviso, 10/02/2016).
Successiva Giurisprudenza di legittimità aveva tuttavia chiarito che “la valutazione circa tale funzionalità è da effettuare “ex ante” e non “ex post“, non potendosi valutare se la prestazione resa sia stata concretamente utile per la massa in ragione del semplice evolversi del concordato in fallimento” (Cass. sez. I, 05/12/2016 n. 24791).
Per cui si attribuiva al Giudice dell’insinuazione al passivo un potere-dovere di accertare se, prima della effettiva redazione della proposta, l’opzione concordataria fosse concretamente perseguibile, ovvero se già ex ante l’unica soluzione alla crisi dell’impresa fosse rappresentata dal fallimento; solo in tale ipotesi non potrebbe giustificarsi un aumento dei costi prededucibili, e quindi una ulteriore riduzione della soddisfazione dei creditori.
La Corte di Cassazione (sez. VI, 21/11/2017, n. 27694) ha chiarito nuovamente la portata del predetto criterio, premettendo in linea generale che i crediti del professionista relativa a consulenza ed assistenza al debitore per la redazione della domanda di concordato sono prededucibili nel successivo fallimento, ai sensi dell’art. 111, 2° c. L.F.; la norma, dettata per favorire il ricorso a forme di soluzione concordata della crisi d’impresa, non dispone che debba verificarsi il “risultato” delle prestazioni eseguite, né la loro concreta utilità per la massa.
Ritiene la Corte che “la L. Fall., art. 111 non richiede, invece, che, ai fini della collocazione in prededuzione dei crediti derivanti da tali prestazioni, debba essere dimostrata l’utilità concreta delle stesse per la massa: da un lato, infatti, va rilevato che non spetta più al giudice la valutazione della convenienza della proposta; dall’altro va rimarcato che, ove detta utilità dovesse essere verificata ex post, ovvero tenendo conto dei risultati raggiunti, la norma risulterebbe priva di senso, in quanto non potrebbe mai trovare applicazione nel fallimento consecutivo“.